“ROSINA”

Sesto Fiorentino 2022

Rosina

In paese tutti conoscevano Rosina e nonostante fosse nubile, dai bambini era soprannominata la nonnina delle rose.

Nessuno sapeva da quando le era nata la passione per quei fiori meravigliosi, ma le voci del paese mormoravano che certamente non poteva essere altrimenti, con quel nome appiccicato addosso sin dalla nascita, avvenuta proprio nel mese di maggio.

Raggiunta la veneranda età di ottantanove anni, quel sussurro che un tempo trapelava sulla sua vita privata, passando di bocca in bocca, si era trasformato in un romanzo d’appendice.

Complice di quel vociferare era anche la fotografia di un militare in divisa che lei teneva gelosamente nascosta… non sempre.

I suoi parenti e amici erano tutti passati a miglior vita e le nuove generazioni amavano fantasticare su quell’alone di mistero che lei stessa aveva creato.

Rosina era un tipo particolare: nessuno riusciva a capire come in lei potessero coesistere due personalità tanto diverse. Solitamente taciturna e persino ruvida con il prossimo, si trasformava completamente quando era tra le sue amate piante. La sua espressione si addolciva e lo sguardo luccicava di un’intensa emozione.

Il piccolo giardino steso come un fazzoletto al sole, davanti la sua casa, era pieno di rose di diverse varietà: ad alberello, a cespuglio e addirittura rampicanti. Negli anni lei aveva cercato di creare nuovi colori con molti innesti e il risultato ottenuto era davvero sorprendente. 

La casa di sassi, vecchia quanto la sua padrona, aveva finestre piccole e poche comodità, ma lei non l’avrebbe cambiata con nessun’altra. Tempo permettendo, era sempre in quel quadratino di terra, china sulle sue amate rose, bianche, gialle, screziate, arancioni e rosse.

Dopo un autunno fresco e soleggiato, l’inverno arrivò improvviso e inclemente.

Dalla finestra della sua camera Rosina guardava, sconsolata, la neve cadere a larghe falde e imbiancare ogni cosa.

Attese con impazienza la primavera e quando il sole scaldò l’aria e asciugò le ultime tracce di un inverno restio ad andarsene, nel giardino la natura esplose rigogliosa. Purtroppo lei non poté assistere a quel magnifico spettacolo che si ripeteva puntualmente ogni anno. La sua anima scalpitava per uscire, ma lei dovette arrendersi agli acciacchi inclementi del suo vecchio corpo sofferente.

Con il passare dei giorni le rose continuavano a sbocciare in un tripudio di colori e a regalare il loro profumo, che riempiva tutta l’aria circostante. Sfortunatamente la loro padrona non era lì ad accarezzarle, accudirle e a vezzeggiarle.

Una maledetta sera il dottore salì frettolosamente gli scalini e, poco dopo, una macchina strappò Rosina dalla sua casa e dal suo amato giardino in fiore.

Quando riemerse dall’oscurità che l’aveva avvolta e riaprì gli occhi, sbatté le palpebre più  e più volte alla luce fredda del neon che la colpì a tradimento. Le pareti bianche, nude e inospitali della piccola stanza la fecero rabbrividire. Era finita in ospedale.

Rosina cercò di parlare, ma dalla sua bocca storta uscì solo un verso rauco. Voleva alzarsi, fuggire da quel luogo che sapeva di morte, ma le gambe e le braccia erano pesanti come macigni.

Provò a sollevarsi, ma la parte sinistra del suo corpo era paralizzata. Impaurita, spossata e dolorante, decise che avrebbe ritentato l’indomani. Avvilita, chiuse gli occhi e si rifugiò nel suo piccolo mondo, tra le sue rose. Passò in rassegna ogni pianta, centellinò ogni bocciolo, ogni sfumatura dei petali vellutati, ogni foglia dal verde lucente.

Era il momento di concimare le sue piante e di tagliare qualche getto di troppo, ma se con la mente era già sul posto pronta a lavorare, la zavorra del suo corpo la inchiodava in quel letto estraneo.

Cercò conforto pensando a lui, il militare ritratto nella fotografia e una lacrima le scivolò lenta sulla guancia, rallentò tra il solco di una ruga e si adagiò in quel pertugio.

Lui era partito per il fronte e da quel giorno in cui l’aveva salutata, donandole la sua fotografia, una rosa rossa e una promessa, non aveva avuto più sue notizie.

Rosina si rivide nel pieno vigore dei suoi vent’anni, salire il sentiero che portava in cima alla collina per attendere, purtroppo invano, il ritorno del suo soldato.

Il loro era stato un amore fatto di sguardi rubati, di sospiri e sogni proibiti, di una promessa sussurrata prima del distacco verso quella dannata guerra in terre lontane.

“Tornerò da te” le aveva promesso. “Aspettami.”

“Sì.” Non era riuscita a dire altro, troppo sconvolta per quella improvvisa partenza.

A guerra finita lei aveva continuato ad attenderlo, rifiutando qualsiasi pensiero di una possibile morte. Gli anni erano scivolati come granelli di sabbia, uno dopo l’altro, nel deserto della sua solitudine, rinfrancata da quell’unica fotografia.

Anche in quel momento, dopo una vita intera, sognava di vederlo comparire sulla soglia, con gli occhi che la fissavano amorevoli e con un fiore tra le mani.

Della rosa di allora aveva piantato il gambo nel mezzo del suo giardino e immensa era stata la gioia e la commozione nell’averlo visto attecchire.

Nel tempo, quel tenero rametto era diventato un alberello forte e robusto. I meravigliosi boccioli scarlatti dal profumo inebriante, le davano la forza di continuare a sperare. Le ricordavano quell’amore sognato e rinnovavano a ogni fioritura quell’antica promessa: “Tornerò da te.”

Anche in quel momento le sembrava di sentire la sua voce carezzevole e vedere la sua alta figura, i suoi occhi scuri colmi d’amore, i capelli neri dalla zazzera ribelle e il suo indimenticabile, candido sorriso.

Tra medicinali, camici bianchi, odori nauseabondi di farmaci e disinfettanti, i minuti si dilatavano diventando ore e poi giorni. Rosina era sola, con i suoi pensieri, le proprie angosce e paure, in una cameretta in fondo al corridoio a un passo dall’ultima stanza, quella in cui nessuno avrebbe mai voluto entrare.

La tapparella della finestra era abbassata e attraverso una fessura poteva intravedere uno spicchio di cielo e, tra i fori della malandata serranda, i raggi di un sole splendente. Domande angoscianti iniziarono a torturarla. Chi si sarebbe preso cura delle sue amate rose? Nessuno le avrebbe amate quanto lei. Avrebbero demolito la sua casetta e con essa il suo piccolo paradiso come avevano paventato?

Schiacciata da un dolore immenso lasciò che lacrime amare e impotenti le bagnassero il viso.

Aveva un solo desiderio, immenso, impetuoso, doloroso: tornare tra le sue rose ed esalare l’ultimo respiro, riempiendosi gli occhi delle forme e dei colori vellutati di una natura perfetta inebriandosi di quel profumo che sapeva di paradiso.

Tutto a un tratto e quasi per magia, Rosina si sentì improvvisamente più leggera. Respirava meglio e non avvertiva più quel dolore acuto trafiggerle il petto. Doveva dirlo subito al medico così le avrebbe concesso il permesso di lasciare l’ospedale.

Presto sarebbe tornata nel suo incantevole giardino e lì avrebbe atteso il ritorno del suo bel militare.

Un rumore nel corridoio attirò la sua attenzione e le fece battere più forte il cuore. Quei passi li avrebbe riconosciuti tra mille.

Doveva alzarsi e mettersi il vestito della festa, non poteva farsi trovare in disordine e in camicia da notte. Dov’era la spazzola per i capelli? E le scarpe di vernice nera?

Ogni pensiero svanì appena lo vide apparire sulla porta ed entrare nella stanza. Era bello da togliere il fiato, con una rosa scarlatta tra le mani e gli occhi pieni di passione.

Quando l’uomo si avvicinò al letto un’ondata di fresca e travolgente energia la investì e la fece sentire giovane e bella come la ragazzina di un tempo.

“Ti avevo promesso che sarei tornato” le disse lui con un sorriso smagliante, offrendole la rosa.

“Mi hai fatto aspettare tanto” lo riprese Rosina in un velato e dolce rimprovero. “Troppo!”

“Ti porterò via da qui, mia cara e non ti lascerò mai più.”

Rosina aspirò il profumo celestiale di quel fiore e sorrise tra lacrime di gioia.

“Per sempre, insieme” sussurrò, mentre il suo cuore impazzito per la felicità, faceva l’ultima capriola.

Intanto, nel piccolo giardino un venticello primaverile accarezzava i boccioli e si insinuava tra i cespugli, ignari di essere rimasti soli.

Racconto premiato a Roma, Grosseto, e Firenze